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Vino: l'innovazione che guarda al passato

Pubblicato in Cucina
April 11, 2024
6 min

Indice

Vino: l'innovazione che guarda al passato
Vini naturali e metodi ancestrali
Vino: l'innovazione che guarda al passato

Vino: l’innovazione che guarda al passato

Foto di un grappolo d'uva maturo in vigna

Vini naturali e metodi ancestrali

Da un po’ di tempo si sente parlare sempre più di vini “naturali”, fatti come si facevano una volta, ossia minimizzando l’intervento umano durante tutto il processo di fermentazione e lasciando – per quanto possibile – che la natura faccia il proprio corso. Ciò vale tanto in vigna quanto in cantina, per cui la storia dell’enologia e della viticoltura rappresentano una grande fonte d’ispirazione, da cui recuperare tecniche e strumenti da riadattare secondo lo sguardo e il gusto odierno.

Nascita e sviluppo dell’agroindustria

È dal secondo dopoguerra che, in seguito all’esponenziale crescita industriale, abbiamo assistito a un mutamento dei nostri sistemi produttivi, a cominciare dall’ambito agroalimentare. Nascita dell’agroindustria, da una parte, e utilizzo della chimica di sintesi, dall’altra, hanno senz’altro permesso una produttività e una sicurezza alimentare (nel doppio senso di safety e security) senza precedenti, pagando però un prezzo alto: perdita di biodiversità, impoverimento dei suoli e standardizzazione del gusto. In seguito, la crescente specializzazione dell’enologia moderna ha reso possibile l’intervento umano su ogni fase del processo di vinificazione, rendendoci capaci di modificare, secondo le nostre esigenze, qualsiasi parametro del vino. A partire dalla selezione dei lieviti, indispensabili per garantire l’omologazione dei tempi di fermentazione e l’andamento della stessa, all’impiego di additivi, sostanze chiarificanti (di origine anche animale) e coadiuvanti vari. Nella maggior parte dei casi, si tratta di composti previsti dai consorzi di tutela e – per quanto ne sappiamo – innocui per la salute, semplici escamotage per correggere l’imprevedibile e discontinuo andamento naturale e fornire alla grande distribuzione un prodotto riconoscibile e sempre uguale a se stesso.

Fermentazioni spontanee e terroir

Negli anni ‘80, poi, piccoli gruppi di produttori iniziano a immaginare un modo diverso di produrre il vino, più vicino a ciò che si faceva “una volta”, ossia prima dell’industrializzazione di coltivazioni e processi, ma con maggiore consapevolezza e conoscenze tecnico-scientifiche. Tra i pionieri di questa tendenza, va senz’altro ricordato il gruppo del Beaujolais composto da Marcel Lapierre, Jean Foillard, Max Breton e Jean Thevenet. Questo gruppo di vignaioli rivoluzionari s’ispirò agli studi di un loro collega, nonché chimico, di nome Jules Chauvet, da cui presero le nozioni di base per iniziare a fare il vino senza utilizzare prodotti chimici né lieviti selezionati, riducendo al minimo l’intervento umano sul mosto in fermentazione. L’idea a monte di questa “resistenza naturale” è semplice: anziché riprodurre un vino piatto e monocorde, adatto a un mercato di massa, ma indistinguibile da qualsiasi altro vino analogo, il movimento dei vini naturali intende proporre prodotti unici nel loro genere, originali poiché espressione di un certo vignaiolo, di una certa filosofia produttiva e di un certo territorio – o terroir. Quelli che la sommellerie contemporanea etichetta come “difetti”, sarebbero in verità la più genuina espressione di ciò che quel vino, in quell’annata e in quell’area geografica, è, e di ciò che qualsiasi vino sarebbe se non ci fosse l’intervento delle scienze enologiche.

Locandina del docu-film "Resistenza naturale" del 2014

Identikit del “metodo ancestrale”

Questa sorta di “ritorno al passato” ha interessato a 360° il mondo del vino, compreso quello delle cosiddette bollicine. Da un po’ di tempo, ormai, si parla di metodo ancestrale (o tradizionale) per riferirsi a una particolare tecnica di spumantizzazione che, con tutta probabilità, è la più antica ancora in uso. Per ottenere la tipica frizzantezza, gli spumanti dei nostri nonni venivano fatti rifermentare spontaneamente in bottiglia, approfittando del residuo zuccherino rimasto al termine della vinificazione. Così è come si è sempre fatto nella Champagne francese e nella zona della Blanquette de Limoux e, i vini ottenuti in questa maniera, presentano un interessante profilo organolettico. Altra caratteristica di questi vini ancestrali è la presenza del fondo che, non venendo eliminato tramite sboccatura, contribuisce a conferire al vino note di crosta di pane, tostatura e lievito. La lavorazione comincia pressando delicatamente le uve, di modo tale da conservare i lieviti autoctoni presenti sulle bucce. Durante il processo fermentativo, enzimi e lieviti limitano la produzione di anidride carbonica, creando un vino spumoso e dall’effervescenza delicata, o pétillant come dicono i francesi. Una volta imbottigliati, questi vini vanno conservati in una cantina fresca e buia, affinché la fermentazione si riattivi ed esaurisca le rimanenze zuccherine. Dopo alcuni giorni, si ottiene lo spumante sur lies, ovvero “col fondo”, secondo il metodo ancestrale dei vignaioli francesi.

Vino in anfora, una storia millenaria

Dal passato arriva anche un’altra recente tendenza, ossia quella di recuperare le anfore di terracotta per far fermentare il mosto. In Italia, è stato Joško Gravner – produttore di “frontiera”, poiché ha i terreni compresi tra Collio Goriziano e Collio Sloveno – a inaugurare la nuova stagione dell’impiego dell’argilla in campo enologico, fungendo da esempio per molti altri vignaioli che hanno scelto questi contenitori non soltanto per un senso romantico di nostalgia per il passato, ma anche come espressione di un approccio al vino che vuol essere più rispettoso della materia prima, della storia e dell’ambiente.

Scorcio con qvevri di una cantina di fermentazione tradizionale in Georgia

Dalla Georgia, i qvevri

Il vino in anfora ha origine circa ottomila anni fa nel sud della Georgia, in quello che oggi è il sito archeologico di Shulaveri Gora. Qui, terra d’origine della vite e patria della scoperta del processo di vinificazione, si presentò immediatamente il problema di proteggere quel prezioso mosto dalle intemperie. A qualcuno, non sappiamo chi, venne l’idea di utilizzare i qvevri, i tipici contenitori in terracotta che, proprio per la loro storia plurimillenaria e la loro valenza culturale per il popolo georgiano, sono oggi riconosciuti come patrimonio immateriale dell’umanità UNESCO. Nasce, così, l’anfora da vino che diventa immediatamente un oggetto indispensabile per trasportare e condividere il vino, il liquido odoroso destinato a conquistare un’immensa fortuna ben al di là del Caucaso. Questi popoli, anche grazie al vino in anfora, iniziarono a stabilire le prime rotte commerciali. Di qui, i primi contatti con gli abitanti della cosiddetta “mezzaluna fertile”, quindi con i fenici e con tutte le popolazioni del Mediterraneo grazie a Greci, prima, e Romani poi. Greco è anche il termine amphora, utilizzato ancora oggi in tutto il mondo. Col passare del tempo, poi, si passò all’utilizzo della botte (che i romani conobbero in seguito alla conquista della Gallia e delle sue sconfinate foreste), per la sua maggiore capienza e praticità di trasporto. Oggi, accanto alle tradizionali botti, si utilizzano anche altre tipologie di contenitori – di acciaio inox o cemento principalmente – ciascuna con le proprie peculiarità. Delle varie tipologie possibili, però, l’anfora sembra possedere qualità uniche che, ancora oggi, la rendono un’opzione di grande interesse e una grande innovazione che affonda le proprie radici nella storia più remota.

Legno, acciaio, cemento e terracotta

Con quello che qualcuno ha definito come «un vero e proprio rinascimento dei vini in anfora» si è riscoperto quale alleato incredibile può essere la terracotta per il vignaiolo, e che presenta caratteristiche trasversali a legno, acciaio e cemento. Similmente al legno, la terracotta è porosa, così da consentire una buona ossigenazione del mosto, talvolta superiore a quella possibile in botte; come l’acciaio, invece, l’argilla è un materiale neutro, che non rilascia alcun terziario (a differenza del legno) a modificare il sapore del vino; e, infine, ha la medesima inerzia termica del cemento, cioè la capacità del materiale di resistere agli sbalzi di temperatura e di mantenerla costante al proprio interno, in particolar modo se le anfore vengono interrate secondo gli usi georgiani.
Questo non significa che l’anfora sia in assoluto il miglior contenitore possibile per la fermentazione del mosto d’uva, ma è interessante notare come questa tecnologia rudimentale e antichissima abbia ancora oggi qualcosa da darci. Inoltre, per la scelta del contenitore, bisogna tenere a mente che tipo di prodotto s’intende ottenere dal momento che, come abbiamo rapidamente visto, ciascun materiale ha le proprie specificità che incidono, in varia misura, sul risultato della vinificazione.

Amphora revolution

A testimonianza dell’interesse crescente attorno a quest’antica novità: Amphora Revolution. Non un semplice “salone del vino”, ma una due giorni in cui si approfondirà a tutto tondo la produzione enologica in anfora, avendo la possibilità di degustare i migliori vini italiani prodotti in questa maniera. L’evento nasce dalla collaborazione tra The Merano WineHunter e il Vinitaly e intende promuovere l’utilizzo della terracotta per la vinificazione, sostenendo che l’anfora è un perfetto esempio di sostenibilità e rispetto della materia prima. Venerdì 7 e sabato 8 giugno, le Gallerie Mercatali di Veronafiere ospiteranno la kermesse, che vedrà coinvolti produttori, enologi, sommelier e appassionati in diverse attività: dalle tavole rotonde alle masterclass, dalle degustazioni alle conferenze e ai dibattiti. A spiegarci cosa c’è di rivoluzionario nel produrre vino in questa maniera è Helmuth Köcher, presidente e fondatore del Merano WineFestival, che in un’intervista afferma: «l’uomo produce vino in anfora da almeno ottomila anni, come dimostrano gli scavi archeologici in Georgia. L’Italia ha un grande potenziale, c’è molta qualità e lo dico anche in base al confronto che ho avuto modo di fare negli ultimi quindici anni con i vini georgiani. Abbiamo voluto creare questo evento per valorizzare questa antica tradizione che oggi più che mai si rivela un’innovazione, una vera rivoluzione. Ecco perché Amphora Revolution: un patrimonio antico che può garantire la naturalità del prodotto, in sintonia con la sostenibilità ambientale e che può rappresentare una sfida contro i cambiamenti climatici».


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