In questa pagina
«Mare color di vino»
Alla conquista del Mediterraneo
Il legame tra mare e vino è così antico che si perde nella storia. Per meglio comprenderlo, è bene ricordare in che termini vengono accostati nei versi epici più antichi in nostro possesso, appartenenti all’Epopea di Gilgamesh scritta nel terzo millennio a.C. dove si legge: «vive presso il mare la donna della vigna, colei che fa il vino. Siduri siede nel giardino sulla riva del mare con la coppa d’oro e i tini d’oro che gli dèi le diedero». Là, in Mesopotamia, il vino si produce da almeno seimila anni, quindi era pratica già diffusa al tempo delle vicende descritte nel poema. Allora, tra i popoli mesopotamici era già ampiamente utilizzato quale simbolo di vita – poiché di color rosso sangue –, medicamento portentoso, potente afrodisiaco e bevanda rituale. Dal Caucaso al Mediterraneo, la vitivinicoltura si diffuse rapidamente, dando una spinta notevole ai commerci di quei popoli (sumeri, assiro-babilonesi ed egizi) che, prima di altri, avevano acquisito il know-how necessario per produrre questo nettare divino. Ma fu coi fenici che la vite poté finalmente solcare il mare, alla conquista di territori ignoti abitati dalle popolazioni mediterranee che furono la vera fortuna della storia dell’enologia. All’epoca, infatti, il trasporto via terra presentava difficoltà immense, perciò gli antichi preferivano le rotte commerciali marine, nonostante non fossero comunque prive di rischi. A dimostrarlo, gli innumerevoli relitti che si sono trovati (e si continuano a trovare) che consentono agli archeologi di ricostruire a ritroso queste antiche rotte commerciali.
Archeologia marina e relitti
Di tali vie mercantili oggi sappiamo molto. Grazie all’analisi dei testi antichi e della documentazione disponibile conosciamo il traffico di navi che, ad esempio, partivano dalla Campania per raggiungere i porti della Gallia e della Spagna; così come innumerevoli sono i relitti che l’archeologia subacquea ha individuato, riportando alla luce preziosissime testimonianze di quel periodo. Delle scoperte di maggiore interesse, si ricorda il relitto romano rinvenuto negli anni cinquanta, nei pressi dell’isola di Gallinara, che trasportava ben 728 anfore, molte delle quali contenenti vino; o ritrovamenti analoghi avvenuti presso Ladispoli (1980), sui fondali della Maddalusa (7 dicembre 2003) o, di nuovo, vicino alla Gallinara (13 dicembre 2003). E ancora: nel 2008 vengono ritrovati cinque relitti a Ventotene, a cui va aggiunto quello ritrovato l’anno successivo nella zona di Ponza. Nel 2010, poi, al largo di Civitavecchia viene ritrovata un’imbarcazione di età augustea carica di dolium, ossia dei grandi vasi a forma sferica anticamente usati per il trasporto di vino. L’elenco potrebbe continuare ancora molto, ma non è quello che ci interessa in questa sede. Piuttosto, grazie ai ritrovamenti archeologici di questo tipo siamo stati in grado di comprendere non soltanto le abitudini economico-commerciali degli antichi, ma soprattutto le caratteristiche dei vini del passato, e di scoprire la naturale predisposizione del mare per la conservabilità del dolce nettare. Temperatura costante e quasi totale assenza di luce hanno, infatti, dimostrato la capacità di bloccare il processo ossidativo, mantenendo il vino inalterato anche molto a lungo.
Acqua di mare e vino
Il mare che culla il vino
Uno dei ritrovamenti più sorprendenti risale al 2010, a quando furono ritrovate oltre cento bottiglie di champagne nelle profondità del Mar Baltico. Si trattava di bottiglie di fine settecento, in perfetto stato di conservazione, tanto che chi ebbe la fortuna di assaggiarle rimase particolarmente colpito dai sentori unici che avevano sviluppato. Sembrerebbe, infatti, che il vino in questa maniera sia stato sottoposto a un processo di affinamento unico. Sott’acqua, il vino va incontro a un processo di “ibernazione” e pochi mesi in mare equivalgono a qualche anno di invecchiamento in superficie. Ciò per via dell’aumento di pressione che, “comprimendo” il vino contenuto nella bottiglia, gli permette una notevole esplosione organolettica una volta riportato in superficie. Ma non è tutto. Le delicate correnti marine permettono di cullare dolcemente le bottiglie così da mantenere i lieviti residui in sospensione e creando quello che in gergo enologico si chiama remuage (traducibile con “scuotimento”), delicato e costante. A ciò, vanno aggiunti altri due elementi: luce e temperatura. Sott’acqua, infatti, la temperatura resta costante, intorno ai 13°C, e la luce è praticamente assente, così da impedire ai raggi UV di penetrare all’interno delle bottiglie e alterarne il prezioso contenuto.
Cantine subacquee e UnderWaterWine
Ecco perché alcuni audaci produttori si stanno dedicando a sperimentazioni in tal senso. Uno dei più recenti trend in campo enologico, risulta essere quello dei cosiddetti UnderWaterWine, ossia i vini affinati sott’acqua. Non pensiate, però, si tratti dell’estro di qualche produttore folle. Tale pratica è infatti storicamente attestata e i primi a praticarla furono proprio i greci. Nel 500 a.C circa, gli abitanti dell’isola di Chio ebbero un’intuizione a cui, prima di allora, mai nessuno aveva pensato: lasciare per qualche giorno i grappoli a mollo nel mare, sistemati nelle nasse da pesca. Così facendo, l’acqua rimuoveva il sottile strato di pruina presente sugli acini d’uva, così da accelerare il processo di appassimento. Inoltre, tale tecnica si diceva esaltasse le caratteristiche organolettiche del vino. La novità, consiste non tanto nella fase post-raccolta quanto piuttosto, come s’è accennato, al periodo di affinamento. Si tratta, nello specifico, della maturazione del vino, del momento in cui emergono i cosiddetti sentori terziari che determinano l’unicità di un vino durante la fase di invecchiamento. Ed è proprio durante questo periodo di stallo che ogni bottiglia evolve e acquisisce una propria identità ed è per questa ragione che la strada del mare può risultare un’idea vincente, un’innovazione che attinge dal passato ma che ha lo sguardo proiettato verso il futuro.