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La “minaccia” dei novel food
Oggi si chiamano novel food – ieri si parlava più comunemente di “cibi esotici” – e, da più parti, si sentono levare voci d'opposizione, intimorite che qualche lobby internazionale intenda modificare le tradizioni culinarie nostrane attuando una "sostituzione gastronomica” in piena regola. Ma è una vecchia storia.
Già nel tardo medioevo, infatti, l'Europa fu travolta da una moltitudine di ingredienti mai visti prima, provenienti dal cosiddetto “Nuovo Mondo”, ossia le Americhe. Allora, uno dei cibi più osteggiato furono nientemeno le patate poiché, crescendo sotto terra, erano considerate come un prodotto demoniaco assolutamente indegno al consumo umano e adatto, al più, a sfamare i maiali. Stessa sorte toccò ai cereali extracontinentali quali riso, mais e grano saraceno che, come ci racconta Massimo Montanari ne La fame e l'abbondanza, dovettero superare le diffidenze degli europei prima di affermarsi come coltivazioni essenziali per la nostra dieta.
A distanza di svariati secoli nulla è cambiato, almeno stando alla narrazione mediatica, che riporta un quadro analogo in cui politici, professionisti e semplici consumatori percepiscono minacciata la propria “identità culinaria” da prodotti che, siccome non appartengono alla nostra tradizione più recente, allora non sarebbero titolati a essere inseriti negli scaffali dei nostri supermercati. Emblematico, a tal proposito, il caso degli insetti.
Razzismo etologico
Nonostante sembri che la neofobia – cioè la paura nei confronti di ciò che nuovo – stia prevalendo sulla possibilità di trovare negli insetti delle proteine di origine animale alternative e maggiormente sostenibili rispetto a quelle cui siamo abituati, alcuni studi rivelano una realtà diversa. Ad esempio, secondo un'indagine dell'Università di Bergamo, ben un italiano su tre sarebbe favorevole ad assaggiare insetti e derivati e a integrarli nella propria dieta.
A chi invece proprio non vuole sentire ragioni andrebbe ricordato che, in primo luogo, nessuno ha intenzione di soppiantare la Fassona piemontese o la Chianina toscana con larve e grilli, bensì si tratta di offrire alternative meno impattanti che contribuiscano a ridurre l'eccessivo consumo di carne e, di conseguenza, diminuirne la produzione che – com'è noto – ha un'elevata incidenza in termini di emissioni di CO2, consumo di acqua e di suolo.
In secondo luogo, poi, non dimentichiamoci che ingeriamo già svariati insetti e derivati. Dati del Centro per lo Sviluppo Sostenibile (CSS) alla mano, emerge ciascuno di noi ingerisce annualmente circa mezzo chilo di insetti senza saperlo. Per non parlare di quelli che vengono regolarmente utilizzati dall'industria alimentare per le più svariate applicazioni, come – per citare soltanto il più conosciuto – la cocciniglia da cui si estrae l'E120, un colorante alimentare largamente impiegato per la produzione di caramelle gommose, yogurt, succhi di frutta, bitter e quant’altro.
Le aziende che sfidano i pregiudizi
Bugs farm e “uova circolari”
A sfidare le resistenze, alcune aziende lungimiranti, come la torinese BEF Biosystem il cui motto recita: «Nutriamo insetti per produrre proteine sostenibili». L’idea dietro al cosiddetto “uovo circolare” è semplice quanto efficace: le eccedenze agroalimentari e gli scarti della produzione agricola vengono utilizzati per nutrire e allevare le larve di mosca soldato (Hermetia illucens) che, una volta adulte, serviranno per la realizzazione di un alimento a elevato contenuto proteico destinato alle galline ovaiole.
Le bugsfarm – così chiamate – presentano vantaggi notevoli rispetto alle colture (mais e soia soprattutto) normalmente destinate alla produzione di foraggio e responsabili, pressappoco, del 50% dell’impronta ecologica totale degli allevamenti. Tali strutture, infatti, consumano una percentuale ridottissima di suolo e acqua e soddisfano il proprio fabbisogno energetico grazie all’uso di impianti fotovoltaici. Inoltre, servirsi di scarti organici per il nutrimento delle larve è un perfetto esempio applicativo di circolarità virtuosa: economica, replicabile e inesauribile.
Va da sé che, come racconta a Repubblica l’AD Beppe Tresso, oltre al nutrimento avicolo, diversi sono i progetti avviati, con lo scopo di sviluppare ricette ad hoc per la produzione di mangimi diversificati.
Farina di grilli made in Italy
Se il progetto dell'uovo circolare mira ad aggirare le diffidenze culturali producendo cibo destinato al consumo animale anziché a quello umano, l'azienda marchigiana Nutrinsect va oltre proponendo sul mercato una farina di grilli 100% made in Italy. Dopo anni di ricerche e lungaggini burocratiche, dal 29 gennaio scorso la loro farina è infatti disponibile per il mercato B2B e tutto il comparto Ho.Re.Ca. in generale, mentre, come dichiara il founder e CEO Josè Cianni, «per vederla al supermercato ci vorrà ancora del tempo. La GDO richiede quantitativi importanti e stabili» che, in questa fase, l’azienda non è ancora in grado di assicurare.
Prima di diventare la prima azienda italiana a produrre e commercializzare farina di grillo, la Nutrinsect dal 2016 (anno della sua fondazione) ha svolto ricerche per quattro anni, con l'obiettivo di raccogliere il know-how necessario per l'allevamento dei grilli domestici (Acheta domesticus). In seguito, nel 2020, l'azienda ha inaugurato il primo impianto pilota, in cui l'allevamento veniva praticato interamente con tecniche manuali per poi arrivare, l'anno successivo, all'introduzione di sistemi semi-automatici, così da incrementare notevolmente la produzione rispetto ai metodi tradizionali. Infine, finalmente, il 2024 è stato l'anno da cui ha preso avvio la distribuzione commerciale della farina di grillo, nel nostro Paese e altrove.