Com'era fatto il vino degli antichi romani?

Le prime piantagioni specializzate sorsero in Campania, precisamente lungo le pendici dei monti Petrino e Massico. Questa zona venne organizzata in terrazzamenti, così da garantire ai vigneti il giusto rapporto tra umidità e temperatura e produrre un vino che fu tra i più apprezzati dell'epoca...
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Alle origini della viticoltura

Per quel che sappiamo, la vite è una pianta endemica della penisola italica tanto che, già nel V secolo a.C., era nota come Enotria, ossia “terra produttrice di vino”. A quel tempo, gli Etruschi erano già esperti in vinificazione, meno in viticoltura, limitandosi a raccogliere i grappoli maturi delle viti selvatiche che crescevano liberamente lungo lo Stivale.

I romani appresero a prendersi cura delle vigne e a produrre il vino da etruschi, greci e cartaginesi che, da diversi secoli prima di loro, si erano dedicati alla produzione enologica. A differenza dei loro predecessori, però, i romani erano abilissimi nelle attività produttive organizzate tanto che Marco Porzio Catone (234-149 a.C.) arrivò a dichiarare la viticoltura la prima delle coltivazioni della Repubblica.

Le prime piantagioni specializzate sorsero in Campania, precisamente lungo le pendici dei monti Petrino e Massico. Questa zona venne organizzata in terrazzamenti, così da garantire ai vigneti il giusto rapporto tra umidità e temperatura e produrre un vino che fu tra i più apprezzati dell'epoca: il proverbiale Vinum Falernum. 

Le innovazioni colturali degli antichi romani sono descritte da Columella che, nel De re rustica (I secolo d.C.), ci descrive l'aspetto delle vigne del tempo. In un primo momento, sul modello etrusco, i romani sistemarono i filari vennero disposti a una distanza di circa tre metri l'uno dall'altro, utilizzando alberi o pali di legno come supporto alle singole viti. Successivamente, si passò alle canne intrecciate e, infine,  delle strutture simili al più moderno guyot. Grazie all'expertise agricola romana, i loro vigneti riuscivano a  produrre fino a centocinquanta quintali per ettaro, con un rendimento del tutto analogo a quello odierno, producendo diverse centinaia di ettolitri di vino.

Vinificazione ed enologia: tecniche e ricette 

È sempre Columella a parlarci delle tecniche di vinificazione in uso al tempo. Anzitutto, i grappoli maturi venivano vendemmiati a delle piccole falci, riposti in apposite ceste e portati in cantina. Con le uve più acerbe, messe da parte, si produceva il vino destinato agli schiavi. In maniera simile ai qvevri georgiani, il mosto veniva fatto fermentare in anfore (i dolia), interrate al fine di mantenerne sotto controllo temperatura, umidità e ossigenazione.

Se la fermentazione, chiaramente spontanea, non era controllabile, non mancavano alcune “sofisticazioni” atte a migliorare aspetto e sapore dei vini prodotti. Ad esempio, se il vino risultava troppo torbido, venivano utilizzati bianchi d'uovo montati o latte di capra per chiarificarlo; oppure, i vini troppo alcolici venivano tagliati con vini più leggeri. In ogni caso, alla maggior parte dei vini prodotti si aggiungeva sale, acqua di mare o resina, ad eccezione dei vini migliori, che venivano semplicemente arricchiti con il defrutum, cioè un mosto concentrato che, grazie all'elevata concentrazione degli zuccheri, riusciva ad aumentare il grado alcolico di uno o due punti percentuale. 

Infine, spesso, al vino così prodotto venivano aggiunti estratti di erbe, miele, fiori e spezie varie, dando vita a un'incredibile varietà di vini aromatizzati che, non di rado, venivano cotti in combinazione con appositi infusi erboristici.  

Vino: il primo dei commerci romani

cocci antichi

Commercio ed esportazione

Per comprendere la portata del commercio vinicolo per i romani, basti pensare al colle Testaccio – da mons testaceum, letteralmente “monte di cocci” –, una collina artificiale larga 850 metri e alta 35 sorta in seguito all'accumulo dei cocci delle anfore (vinarie e olearie assieme) che qui venivano gettate per via del vicino Emporium.

L'esportazione del vino cominciò già nel III secolo a.C., quando la produzione arrivò a superare di gran lunga il fabbisogno interno. Di lì a poco, i raccolti divennero così abbondanti che i romani dovettero portare altrove la viticoltura, così come i greci prima di loro. Arrivarono così in Provenza, sul Reno in Germania e in Spagna, portando con sé la vite e il know-how sviluppato in secoli di produzione enologica.

Nei primissimi secoli dell'era cristiana, molti vigneti italiani furono abbandonati per via della penuria di schiavi che potevano prendersene cura, ma non calò la sete dei romani che, in questo periodo, divennero i principali importatori di vino, dalla Gallia e dalla Spagna soprattutto.

Come bevevano i romani? 

Già dalla varietà di ingredienti utilizzati durante il processo di vinificazione è chiaro che il vino che bevevano i romani doveva avere caratteristiche radicalmente diverse a quelle cui siamo abituati oggi. Ma anche il modo di consumarlo era molto diverso. Era, infatti, abitudine diffusa quella di diluire il vino con l'acqua, calda o fredda a seconda dei gusti individuali e della stagione – il merum, ossia il vino in purezza, era apprezzato soltanto dagli ubriaconi.

Durante i banchetti ufficiali, poi, grande importanza rivestiva il magister bibendi, ossia colui che doveva stabilire quanto  commensale avrebbe dovuto bere durante la cena, e in quale proporzione diluire il vino. Nelle famiglie più nobili, troviamo anche alcune figure paragonabili ai nostri sommelier, gli haustores, che erano incaricati di suddividere i vini secondo le loro caratteristiche qualitative e in base al loro utilizzo.

Infine, sebbene a Roma il vino perse quasi del tutto quella dimensione mistico-religiosa che rivestiva in Grecia, i brindisi propiziatori rimasero una pratica diffusissima. Per augurare la pronta guarigione di un amico o di un persona amata, per rendere omaggio a un defunto o per celebrare una divinità, o come semplice augurio di buona sorte.

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