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Un’invenzione americana
Ancel e Margaret Keys
Che il concetto di dieta mediterranea nasca nella mente di Ancel Keys, epidemiologo statunitense, nella seconda metà degli anni Cinquanta è cosa nota, meno conosciuta è la sua esatta genesi. Ancel e la moglie Margaret notarono che in alcune aree del Medirerraneo l'incidenza di patologie cardiovascolari era bassissima, dunque decisero di condurre ricerche “sul campo" per capirne le ragioni. Durante le ricerche arrivarono ad ipotizzare che esistesse una correlazione tra le abitudini alimentari di questi popoli e l’incidenza di determinate malattie. Dai periodi di studio trascorsi, a partire dal 1957, a Creta, a Nicotera in Calabria e a Pioppi, nel Cilento (dove i coniugi presero casa e vissero per vent'anni), vide la luce The seven countries study, una pubblicazione in cui si teorizzava la corrispondenza tra un basso consumo di grassi saturi e il minor rischio di sviluppare patologie del sistema cardiocircolatorio.
Il regime alimentare che gli studiosi indicarono come “mediterraneo” era, per lo più, un ideale che prendeva spunto da varie abitudini di popolazioni anche molto diverse tra loro. Abbondanza di cereali non raffinati, molta frutta e verdura, legumi, pesce e pochissima carne, il tutto condito con olio extravergine di oliva e accompagnato dal vino rosso. Più un sogno che una realtà di fatto dato che – come vedremo meglio in seguito – il Mezzogiorno, in quegli anni, soffriva la fame, ed erano pochissimi a potersi permettere olio, vino e grano (Vito Teti parla di trinità mediterranea), mentre la maggior parte della popolazione aveva un'alimentazione scarsa, disordinata e mal bilanciata, con consumo abbondante di grasso di maiale.
Nel 1975, infine, Ancel Keys pubblicò Eat well, stay well. The Mediterranean way. L'espressione fece scalpore e funzionò a tal punto da diventare d'uso corrente, aiutata anche dalla spinta del marketing e del giornalismo gastronomico, arrivando così a modificare la stessa percezione che noi italiani abbiamo della nostra cucina e della nostra storia gastronomica.
Da un ideale all'UNESCO
La specificità della dieta mediterranea, presentata come autoctona e ben definita dalla tradizione, è dunque frutto di una sorta di "americanizzazione" di certi usi alimentari che, se anche fossero stati la norma nel Mezzogiorno del secondo dopoguerra, di certo non lo erano per le fasce più povere della popolazione. Piuttosto che modelli alimentari diffusi si tratta di archetipi, come conferma l'antropologo Vito Teti dicendo che «il modello, l’ideale alimentare non corrisponde alla realtà di nessuna area geografica del mediterraneo. […] La “trinità mediterranea” (l’olio di oliva, il pane di frumento e il vino), resta un’eredità pesante, che caratterizza, però, soprattutto la cucina dei ceti benestanti e i sogni e i desideri dei ceti popolari».
A dispetto, dunque, del carattere ideologico che tale modello alimentare ha assunto nella contemporaneità, la dieta mediterranea è ben lontano da quel regime “popolare” e “tradizionale” che si vorrebbe stabile e immutabile da secoli, radicato come sarebbe nelle usanze del sud d'Italia e di altri Paesi limitrofi. Il modello mediterraneo andrebbe inteso per quello che è: un modello appunto, una sorta di prontuario di accorgimenti dietetici utile per calibrare le proprie scelte alimentari in ottica nutrizionale e salutistica, un’invenzione e non una realtà.
A cristallizzare definitivamente la dieta mediterranea come realtà incontrovertibile, il riconoscimento come Patrimonio culturale orale e immateriale da parte dell’UNESCO, nel novembre 2010 per Italia, Spagna, Grecia e Marocco, estesa anche a Cipro, Croazia e Portogallo (che nemmeno affaccia sul mar Mediterraneo) nel 2013. Nella nomina, oltre al regime dietetico, si fa riferimento anche all'insieme di pratiche tradizionali, conoscenze e abilità che sono state tramandate di generazione in generazione in molti paesi mediterranei, fornendo alle comunità un senso di appartenenza e di continuità. L'enfasi viene, pertanto, posta su un certo stile di vita che rappresenta una generalizzazione di attitudini socioculturali diversissimi, con un ventaglio altrettanto variegato di usi gastronomico-culinari distinti.
La dieta mediterranea oggi
Sovranismo alimentare e dintorni
Negli ultimi tempi abbiamo sentito spesso esponenti politici della destra italiana prendere le difese della dieta mediterranea, in quanto tratto distintivo della nostra identità culturale che sarebbe sotto attacco da più fronti: Unione europea e multinazionali straniere in primis. Politiche continentali che promuovono un minor consumo di alcolici vengono, perciò, lette come tentativi di stroncare la produzione vitivinicola nostrana; così come l'accettazione di novel food con cui si tenta di ridurre l'impatto ambientale del nostro fabbisogno alimentare diventa una minaccia per gli allevamenti d'eccellenza dello Stivale; e così via.
Persino il ministero presieduto da Lollobrigida è stato ribattezzato come Ministero dell'Agricoltura e della Sovranità Alimentare, volendo enfatizzare un significato distorto di ciò che il concetto porta con sé. Se parliamo di “sovranità alimentare”, infatti, non dobbiamo pensare a un sistemo autarchico conchiuso in se stesso, bensì a un approccio che permette alle comunità locali di autodeterminarsi e di promuovere e valorizzare ciascuna le proprie specificità territoriali, così da favorire il commercio, lo scambio e la contaminazione.
Ancora una volta, quindi, l'obiettivo è quello di sancire la secolarità di una dieta che non è mai stata praticata, come strumento politico di identificazione privo di qualsiasi legame con la realtà. Dire che «gli italiani si sono sempre nutriti seguendo i principi di quella che oggi chiamiamo “dieta mediterranea”» si presenta come una delle verità inconfutabili della cucina italiana, anche se in realtà è «vero proprio il contrario: gli italiani non hanno mai seguito la dieta mediterranea», scrive Alberto Grandi nel suo Denominazione di Origine Inventata.
Il marketing dell'ideale mai raggiunto
Nel dimostrare la natura ideale del regime mediterraneo, però, non si vuol dire che tali indicazioni non siano valide da un punto di vista salutistico-nutrizionle. Tutt'altro, come diversi studi successivi a quelli condotti da Keys dimostrano. La ricerca dei coniugi aveva l'obiettivo di fornire indicazioni dietetiche utili a migliorare il benessere delle persone, e non fu un tentativo rigoroso di ricostruire l'origine di una certa cucina piuttosto che di un'altra. Sempre il prof. Grandi spiega: «i Keys si erano inventati ricette e di certo non avevano inteso riferirsi solo all’Italia, per quanto riguarda la provenienza degli ingredienti, ma, appunto, all’intero bacino del Mediterraneo. Alla fin fine la loro proposta era quella di sostituire i grassi animali con quelli vegetali e di mangiare più verdure e più pesce».
Successivamente, grazie ad alcuni antropologi si sono scoperte le reali condizioni alimentari delle popolazioni nel Sud Italia negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale e inizia a emergere quanto scrive Vito Teti: «il modello attuale della dieta mediterranea non corrisponde alla realtà storica di nessuna area geografica del Mediterraneo. Ancora nella prima metà del Novecento e fino agli anni Cinquanta le popolazioni meridionali presentavano un regime alimentare a base di pane di mais, patate, pomodori, peperoni, legumi, e per il condimento usavano il grasso di maiale». Come se non bastasse, dopo il boom economico degli anni Sessanta, scomparve quasi del tutto la fame, ma aumentò significativamente il consumo di carne, pesce, grassi e zuccheri, a discapito di pane, cereali, verdure e olio. Un allontanamento da quell'ideale dietetico che, se si rinuncia a pensarlo come eterno e intoccabile, resta un utile guida per un’alimentazione corretta che alle proteine e ai grassi animali preferisce quelli di origine vegetale, prediligendo fibre e zuccheri della frutta piuttosto che cibi processati e dolcificati artificialmente.