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Turista e turistico: un po’ di storia
Il turismo, così come lo intendiamo oggi, nasce in ambienti borghesi-aristocratici nel corso dell'ottocento. Il termine deriva dal francese touriste, da tour, e viene inizialmente inteso in chiave positiva. I primi turisti, infatti, erano persone benestanti che, proprio per le loro disponibilità economiche, potevano permettersi di sospendere le loro attività per visitare paesi diversi dal proprio. È l'epoca del cosiddetto “Grand Tour”, di cui Goethe, con il suo Viaggio in Italia, fu uno dei testimonial più in vista.
Sempre in questo periodo, precisamente nel 1898, i fratelli Édouard e André Michelin, danno vita a una guida destinata ai viaggiatori, un progetto lungimirante e avanguardistico dal momento che la prima edizione del “rossa” fu stampata in ben trentamila copie, quando si contavano appena tremila automobilisti in tutta la Francia. Pochi anni prima, nel 1894, a Milano veniva fondato il Touring Club. Siamo a cavallo tra ottocento e novecento, nel periodo della belle epoque che, tra l'altro, vede l'apertura di posti specializzati nell'accoglienza turistica.
Oggi, però, questa visione romantica del turista-viaggiatore è venuta meno, e il termine “turista/turistico” assume generalmente un’accezione negativa, sinonimo di dozzinale, scadente e truffaldino. Ciò è dovuto al fenomeno del turismo di massa, esploso nel secondo dopoguerra, che ha provocato conseguenze a tutti i livelli, tanto che oggi si sente sempre più spesso parlare di overtourism, mentre si cercano soluzioni per regolare i flussi turistici.
Centri storici e cucina dozzinale
In Italia, patria del buon cibo e dei piaceri della tavola, non è affatto facile trovare un posto in cui mangiare bene e a prezzi onesti nei centri storici delle mete più ambite. Tavole calde di bassa qualità, fast food e ristoranti che offrono menù turistici da cui tenersi alla larga. In effetti, è abbastanza paradossale pensare che il biglietto da visita del Paese che vorrebbe la propria cucina riconosciuta universalmente come la migliore, dia ai turisti certe schifezze, facendole peraltro pagare un'esagerazione.
Nelle piazze italiane più belle e famose è usuale trovare insegne di locali che riecheggiano nomi altisonanti soltanto per attrarre turisti un po’ sprovveduti: San Marco, Tritone, Dante, Fellini e Michelangelo sono solo alcuni esempi in questo senso. Nella maggior parte dei casi, si tratta di locali di bassa qualità, popolati da invadenti buttadentro che cercano di accaparrarsi i passanti facendo sfoggio di menù costruiti ad hoc per reiterare gli stereotipi della cucina italiana all'estero.
Oltre alle proposte gastronomiche a dir poco discutibili, questa tipologia di strutture si avvale spesso di staff poco qualificato, dai modi bruschi e sbrigativi, il cui unico scopo è quello di velocizzare il servizio così da aumentare il ricambio di clientela, piuttosto che dedicarsi alla cura e all'accoglienza degli ospiti. Per quale motivo? Tale disattenzione nel fidelizzare il cliente deriva dall’erronea convinzione di non averne bisogno, dal momento che se hai un locale che si affaccia sul Colosseo a Roma o in piazza San Marco a Venezia il lavoro non ti mancherà mai. Ma avere il ristorante sempre pieno non è sinonimo di lavorare bene, in linea con i propri obiettivi aziendali e con il desiderio di offrire un'esperienza gradevole e memorabile agli ospiti.
Overtourism e scomparsa della tradizione
Omologazione culinaria
La volontà di certi ristoratori di massimizzare i profitti abbindolando i turisti ha causato una profonda trasformazione delle nostre città e della nostra importante e variegata tradizione enogastronomica. All'incredibile varietà della cucina regionale si è preferita una cucina posticcia fatta di pochi piatti uguali dappertutto: pizza, pasta, cappuccino e spritz.
Menù in bella vista, con tanto di foto dal dubbio gusto che propongono tutti le stesse pietanze, a prescindere dalla città in cui ti trovi o dalla stagione. Spaghetti allo scoglio, lasagne alla bolognese, pasta alla carbonara, tiramisù e pizza, accanto a piatti che di italiano non hanno proprio nulla quali l'arcinota pasta Alfredo.
Gli stranieri, specialmente i turisti statunitensi, sud coreani e giapponesi, conoscono la nostra gastronomi sulla base di ciò che hanno appreso dai vari trend sui social - Instagram e TikTok su tutti - pertanto hanno una visione distorta e stereotipi della cucina nostrana, che diversi ristoratori non fanno altro che alimentare per il proprio tornaconto. Spesso, turisti di uno stesso Paese si scambiano informazioni e consigli sui luoghi in cui andare a mangiare e su cosa ordinare e talvolta non sono nemmeno interessati a sfogliare il menù, semplicemente ordinano la pizza - alle 11 del mattino così come alle 17 - o mostrano le foto di un piatto sul telefono, magari suggerito dal food influencer di turno, e chiedono che gli venga preparato.
Banalità e appiattimento
Al di là dei locali dichiaratamente turistici, il trend dell'omologazione sta dilagando e interessa un sempre maggior numero di attività ristorative. Se, infatti, giriamo per le strade delle nostre città, tolte le pizzerie, i ristoranti etnici e gli oramai onnipresenti locali di cucina romana, trovare posti in cui mangiare le tipicità locali non è affatto semplice, specialmente nei centri storici. La tendenza è quella di cavalcare l'onda del momento: dalle pantagrueliche pietanze che ammiccano ai foodpornari di Instagram all'abuso del pistacchio, gli esempi sono moltissimi.
Tale appiattimento è la diretta conseguenza del recente boom della ristorazione che ha visto più che raddoppiare i locali nel giro di pochissimi anni. Fenomeno che è stato definito foodification (o gourmet gentrification), per sottolineare come tale crescita esponenziale possa essere causa di profondi cambiamenti nel tessuto urbano e sociale. Ciò, in particolar modo, avviene quando si aprono attività il cui modello di business guarda in via esclusiva alle mode del momento come - nel nostro caso - il “tipico” o, meglio, una versione del tipico costruita sulla base dell'idea che il turista strniero ha in testa, così da dargli esattamente ciò che va cercando in maniera acritica.
Nessuno va al ristorante per fame, bensì scegliamo di mangiare fuori casa per piacere e curiosità. Entrare in un ristorante banale, dalla qualità dubbia e che propone piatti artefatti spacciati come ricette storiche è un'occasione persa. I ristoranti autenticamente tradizionali dovrebbero essere quelli in cui si scoprono preparazioni ignote e ingredienti insoliti, unici nel loro genere, che non si sarebbero potuti conoscere altrimenti e certamente migliori di una carbonaro mangiata a Milano o di un risotto ordinato a Roma.