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Chiude il Noma, il miglior ristorante del mondo
Nemmeno l'alta ristorazione riesce a sfuggire dalla crisi economica. Nel 2021 lo chef René Redzepi del Noma (acronimo di nordic mad, ossia “cucina nordica”) di Copenhagen ha annunciato la definitiva chiusura del suo locale entro quest'anno. Non un semplice ristorante, ma un locale tristellato che nei suoi vent'anni di attività ha raccolto diversi riconoscimenti internazionali, uno fra tutti la nomina come miglior ristorante al mondo per ben cinque volte – di cui quattro consecutive, dal 2010 al 2014 – secondo la classifica The World's 50 Best Restaurants.
Al di là dei riconoscimenti ufficiali, il merito principale del Noma è stato quello di rilanciare la cucina danese, utilizzando in maniera innovativa le materie prime locali e diventando un vero e proprio laboratorio di sperimentazione gastronomica: elementi che hanno portato Redzepi a ergersi a icona della cucina mondiale. Un successo confermato anche dalle lunghe liste d'attesa, che può arrivare fino sei mesi.
Eppure, nonostante la notorietà e il successo decretato congiuntamente da pubblico e critica, il ristorante sarà costretto a chiudere i battenti a causa dei costi di mantenimento troppo elevati e dell'eccessivo carico di lavoro. Lo chef, nel dare l'annuncio, ha insistito molto sull'insostenibilità economica, sottolineando come soltanto nel 2021, l'azienda di Redzepi abbia registrato perdite di fatturato record: 230.000 euro netti.
Il “caso Cracco”
Qui da noi, è noto il “caso Cracco”. Lo chef pluristellato, infatti, avrebbe accumulato debiti esorbitanti con il suo ristorante sito in Galleria Vittorio Emanuele II a Milano, che superano i 4,5 milioni di euro. Un chiaro sintomo del precario stato di salute del settore che, nonostante i riconoscimenti ufficiali e non, hanno portato il Ristorante Cracco a chiudere il bilancio dell'azienda con circa mezzo milione di perdite annue. «In tal modo – scrive Affari Italiani – il passivo accumulato in cinque anni di gestione è salito a oltre 4,6 milioni, a fronte di riserve per 4,8 milioni, tanto che il patrimonio netto s’è ulteriormente assottigliato a 246.000 euro».
Giancarlo Morelli, noto chef del ristorante Pomiroeu di Seregno, in attività dal 1993, e del Morelli Milano, locale all’interno dell’Hotel Viu in zona Sarpi, commenta in un lungo post la notizia, scrivendo che «il suo passivo è un segnale drammatico della crisi che sta attraversando l’alta ristorazione. Affitti troppo alti, energia alle stelle, personale sempre più difficile da reperire e concorrenza spietata». Vivere di debiti sarebbe infatti l'unico modo in cui la maggior parte della ristorazione italiana (e non solo) riesce a tirare avanti.
Storie come questa fanno emergere alcuni interrogativi circa il futuro dell'alta ristorazione. Se, infatti, nemmeno i locali più blasonati riescono a mantenersi a galla, sarà necessario un profondo ripensamento di tutto il comparto, e una sua evoluzione verso un modello che permette ai ristoratori di portare avanti le proprie attività, mantenendo i medesimi standard.
L'insostenibilità del fine dining
Quanto vale una stella?
Due sono i fattori che palesano l'insostenibilità di un sistema che spinge moltissimi chef e ristoratori a lavorare per anni con l'unico obiettivo di guadagnare la tanto ambita stella: il primo riguarda l'aspetto economico, il secondo riguarda la sfera personale, dal momento che il perseguimento di tale fine implica pesantissime rinunce e radicali revisioni del proprio stile di vita.
Economicamente parlando, è chiaro da tempo che il modello degli stellati non funziona. Se, infatti, prendiamo il fatturato del 2022 di tutti i ristoranti stellati d'Italia – pari a meno dello 0,2% delle attività ristorative totali – e lo consideriamo come se provenisse da un'unica azienda, questa sarebbe al 556esimo posto delle imprese italiane. Un risultato deludente, nonostante in uno studio di qualche anno fa si legga che guadagnare la prima stella porti a un aumento del fatturato pari al 50%; con la seconda, poi, un ulteriore incremento del 18,7%; e con la terza si registra un +25,6%. Dunque, se un ristorante guadagnasse una stella all'anno per tre anni consecutivi, il suo fatturato salirebbe più del 200%. Non sembrerebbe male, ma con la crescita delle entrate aumenterebbero esponenzialmente anche i costi di gestione, il food cost, lo staff, la strumentazione, le spese per il marketing e l'ufficio stampa e via di seguito.
Alta ristorazione e hotellerie
Un piccolo faro di speranza sembra riguardare l'alta ristorazione connesse agli hotel. Sempre più spesso, infatti, il fine dining e l'hotellerie vanno a braccetto, come conferma Sergio Lovrinovich, direttore della Guida Michelin Italiana. Sempre più alberghi, infatti, sceglierebbero di avvalersi di chef rinomati così da attirare clientela esterna.
Gli esempi in tal senso sono molteplici: La Pergola di Heinz Beck, unico tristellato di Roma, è connesso all'hotel Rome Cavalieri; anche il ristorante St. George di Beck di Taormina, due stelle, si trova nell’Ashbee Hotel; così come il St. Hubertus di Norbert Niederkofler che è collegato all’Hotel Rosa Alpina di San Cassiano. Così a Milano, dove lo chef Alberto Quadrio lavora al ristorante del Portrait, e a Venezia, in cui il ristorante stellato Glam di Enrico Bartolini si trova all’interno del luxury hotel Palazzo Venart.
Questa collaborazione tra stellati e alberghi ha, anzitutto, vantaggi economici rilevanti per entrambe le parti: gli hotel riescono ad attirare clientela esterna e prolungare le stagioni e, d'altra parte, i ristoranti riescono a ridurre i costi di gestione e a garantirsi flussi costanti. Secondo Elisa Puleo del gruppo Belmond, il fine dining incide sul bilancio degli alberghi per circa il 40% o più: è questo il caso del ristorante DaV Mare della famiglia Cerea, sito nello Splendido Mare di Portofino, che vale ben il 60% del fatturato complessivo.
Un rapporto win-win che, se adeguatamente coltivato, può rappresentare una buona opportunità per rendere economicamente sostenibili i locali di fine dining, a patto che anche l'hotel in questione, per parte sua, riesca a garantire gli adeguati investimenti.