Servizio “alla francese”
Un tempo, prima del successo del minimalismo gastronomico, i banchetti rappresentavano una celebrazione della ricchezza e del potere di chi li ospitava. Dal Medioevo in poi, la grandezza di un signore si misurava anche sulla base della quantità di cibo presente sulle grandi tavole imbandite, sul numero e la varietà delle portate, sull’esoticità degli ingredienti e sul livello di spettacolarizzazione del pasto. Altrove, abbiamo già parlato dello scalco, una sorta di responsabile di sala il cui compito principale era quello di stabilire la suddivisione delle portate – sessanta, settanta o più –, alternando i “servizi di credenza” (cioè le portate fredde) ai “servizi di cucina” (ossia le pietanze calde). Questa modalità di servizio, che prevede la presenza simultanea di più vivande diverse, è detta “alla francese” anche se, stando al Libro dello scalco di Evitascandalo (1609), si trattava di una peculiarità del «servir d’Italia».
Eccesso e meraviglia
Dando uno sguardo alle testimonianze scopriamo come, diversamente dalla sobrietà dei ristoranti contemporanei, i banchetti barocchi erano caratterizzati da uno spiccato gusto per l’eccesso e la meraviglia dei commensali. Nelle fonti si legge di pasticci di carne modellati a forma di leoni, aquile o altri animali; di tonno lardellato a mo’ di lonza arrosto; di gelati che sembrano salami e prosciutti; di castelli di marzapane abitati da uccelletti vivi e via di seguito. Oppure, ancora, troviamo composizioni di frutta fresca accatastata in forma piramidale, o disposta artisticamente a imitazione di architetture più elaborate. Accanto a tutto questo i trionfi, vere e proprie sculture che riproducevano scene naturalistiche o mitologiche, realizzate in pasta di zucchero, marzapane o burro; e gli autòmati, ovvero dei fantocci meccanici semoventi. Una messinscena ben architettata in cui tutti quei cibi, come ci informa Pietro Verri, pare «non servissero ad altro che alla vista dei commensali durante il convito, e che quello finito si concedessero da depredare festosamente al popolo». Cibo da “mangiare con gli occhi” quindi, in cui stupore e incanto hanno la precedenza su materie prime e gusto. Oggi, sebbene siano scomparse tutte le esagerazioni di allora, gli chef sembrano di nuovo interessati a ingannare l’occhio degli ospiti, manipolando a tal punto gli ingredienti da renderli irriconoscibili, ma creando piatti così armoniosi e perfetti da essere considerati vere e proprie opere d’arte – un po’ come pièce montée e trionfi che esaltavano le abilità scultoree dei cuochi barocchi.
Chefstar medievali
Quegli incredibili banchetti, oltre a glorificare i signori, davano fama e prestigio sociale ai cuochi. Non è, infatti, un caso se molte di queste chefstar barocche pubblicarono libri di cucina dal notevole successo. Com’è il caso del Libro de Arte Coquinaria del “Maestro” Martino de’ Rossi, «principe dei cuochi» poiché seppe innovare la tradizione ed elaborò un metodo infallibile e universale per calcolare i tempi di cottura: suggerì di recitare certe preghiere, una o più volte a seconda delle preparazioni, cosicché il tempo di «doi paternostri» e i ravioli in brodo sono pronti. O di quello che viene descritto come l’autentico bestseller gastronomico del Cinquecento, l’Opera di Bartolomeo Scappi, il «cuoco secreto» dei papi che, nel suo imponente manuale, raccoglie più di mille ricette, consigli d’igiene e conservazione dei cibi e moltissime immagini che lo rendono, di diritto, il precursore dei libri di cucina moderni. O del libro del suo rivale, Cristoforo di Messisbugo, il cuoco-scalco che preferì di gran lunga dedicarsi a dirigere la sala piuttosto che stare ai fornelli, autore di Banchetti. Compositioni di vivande, et apparecchio generale.
Servizio “alla russa”
Agli inizi dell’Ottocento, però, le cose cambiarono radicalmente. Ai pomposi buffet cinque-seicenteschi si va sostituendo un’attitudine nuova, d’importazione russa. Siamo in Francia, precisamente a Parigi, quando il principe Kurakin – ambasciatore dello zar – introduce una nuova modalità di servizio che prevedeva una successione ordinata delle portate, eccezion fatta per i dessert, che facevano parte dell’allestimento fisso della sala da pranzo. Da quel momento in poi, il cosiddetto servizio “alla russa” si diffuse a macchia d’olio in tutte le casate europee, andando a sostituire le vecchie abitudini.
Verso il trionfo del less is more
Tra i grandi innovatori del secolo, Marie-Antoine Carême (1744-1833). Chef e pasticcere di primo livello, a cui va riconosciuto il merito di aver completamente riscritto i canoni estetici della cucina del suo tempo. Ci riuscì anche grazie alla sua passione per le gloriose arti plastiche del passato di cui, quando non era impegnato ai fornelli, studiava i segreti presso il Gabinetto della Biblioteca Reale. Durante le sue ricerche, Carême notò lo stile sciatto dei suoi colleghi, le cui eccessive decorazioni penalizzavano anziché esaltare le preparazioni che accompagnavano. Di qui, il desiderio di riproporre la perfezione architettonica sulla tavola, che lo consacreranno a «re dei cuochi e cuoco dei re». Così, alla profusione disordinata di orpelli e decorazioni varie, Carême contrappone un addobbo di qualità superiore: più lineare, semplice ed elegante, finalizzato a valorizzare le portate e non piuttosto a sovrastarle.
La fine della cucina decorativa?
Tra coloro che sostennero un approccio più minimale alla cucina vi fu George Auguste Escoffier che, nel 1903, pubblicò la prima edizione della sua Guide Culinaire. Nella prefazione – poi rimossa – lo chef riflette sui meriti e i limiti della cucina decorativa. Se, indubbiamente, i trionfi in marzapane o le sculture di frutta riuscivano a catturare lo sguardo dei commensali seducendoli, d’altra parte rallentavano il lavoro della cucina, andando a penalizzare gusto e fragranza dei piatti. Eppure, a dispetto delle sue parole, Escoffier è ricordato anche per esser stato un abilissimo artefice della scultura gastronomico-decorativa. Nonostante sostenesse che bellezza e semplicità possono convivere, ce lo ricordiamo in particolar modo per le sue riproduzioni naturalistiche in cera e/o ghiaccio. Dai fiori iperrealistici alla leggendaria “pesca Melba”: un dessert a base di gelato alla vaniglia, pesche, fragole e mandorle alloggiato all’interno di un trionfale blocco di ghiaccio scolpito a mo’ di cigno.
Servizio “al piatto”
Se, agli inizi del Novecento, la cucina decorativa ha ancora un certo consenso, ben presto le cose sono destinate a cambiare radicalmente. Abbiamo visto come, gradualmente, si sono ridotti ornamenti e portate, passando da traboccanti buffet a un servizio più ordinato ed elegante, in cui le portate vengono presentate e porzionate individualmente. Negli anni Trenta, però, tutto cambia: le pietanze vengono presentate impiattate, abolendo l’uso di ingombranti vassoi in favore di un servizio più essenziale detto, appunto, “al piatto”.
Marinetti e il futurismo
La svolta arriva con la pubblicazione del Manifesto della cucina futurista, di Filippo Tommaso Marinetti e Fillia (pseudonimo dello chef Luigi Colombo). Rifacendosi alle teorie gastronomiche del cuoco francese Jules Maincave, gli autori intendono ribaltare i canoni della cucina tradizionale, creando qualcosa di completamente nuovo e stupefacente. Dei grandi banchetti barocchi non rimane quasi più nulla, eccetto quella medesima tendenza monumentalistica, ridimensionata in favore di un’idea di coerenza fra cibo servito e – diremmo oggi – location. Se, nelle parole di Marinetti, i piatti «di una volta […] erano barocchi, rococò, imperiali, intarsiati, arricciati, opulenti e fronzoluti come i loro abiti, le loro tappezzerie, maioliche e parrucche»; oggi, «gli artisti e i cuochi moderni devono pensare di intonare anche la cucina ai colori, alle forme e alle linee dell’epoca», in accordo con il gusto moderno. Il futurismo, in gastronomia, ha rappresentato una breve e bizzarra parentesi, che ha tuttavia lasciato un segno nell’evoluzione della cucina contemporanea, contribuendo in maniera significativa a passare dalla cucina del passato a quella che è stata definita nouvelle cuisine.
Gli anni ‘60 e la nouvelle cuisine
Al di là degli esperimenti del futurismo marinettiano, negli anni Sessanta del secolo scorso la gastronomia si trovava in una fase di stallo, intrappolata in modelli estetici del passato e priva di riferimenti alternativi. Le cose cambiarono quando i fratelli Troisgros decisero di servire le pietanze già impiattate, per semplici ragioni pratico-organizzative. Un modo per facilitare il servizio di sala e cucina che, tuttavia, divenne una moda e si diffuse rapidamente in tutti i ristoranti d’Europa. Sempre ai Troisgros dobbiamo il piatto universalmente riconosciuto come simbolo di quella nouvelle cuisine che stava nascendo: la mitica scaloppa di salmone all’acetosella. Finalmente, dopo secoli di ornamenti e decorazioni superflue, si assiste a una celebrazione del cibo di per se stesso, in cui necessità espressiva e finalità fisiologiche coincidono. Una ricerca di semplicità che riguarda tutti gli aspetti della cucina: dall’impiattamento all’esaltazione dei singoli sapori, non più amalgamati tra loro, ma individualmente riconoscibili. Un esempio su tutti di questo nuovo atteggiamento culinario è la celebre ratatouille di verdure di Roger Vergé, che prevede la cottura delle verdure una ad una. Così, il gusto finale del piatto è il risultato dell’esaltazione dei singoli ingredienti piuttosto che un indecifrabile mappazzone (per citare lo chef Bruno Barbieri).