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L’intoccabile sacralità del cibo
Negli ultimi tempi, lo storico Alberto Grandi sta facendo molto discutere. Il motivo? Semplicemente per aver fatto il proprio lavoro, ossia aver studiato documenti e quant'altro – un po’ per passione, un po’ per caso – riguardanti le radici profonde di ciò che oggi viene identificata come “cucina italiana”.
Il polverone è scoppiato quando, a marzo 2023, il professore ha rilasciato una lunga intervista sul prestigioso Financial Times. L'eco di quell'intervento è stata mondiale e, qui da noi, ha sollevato voci critiche da tutte le parti: comparto produttivo, politica e opinione pubblica. Coldiretti e Matteo Salvini tra le voci più autorevoli che hanno accusato il prof. Grandi di voler infangare l'enogastronomia nostrana, disconoscendo la portata profonda di quel patrimonio di usi, tradizioni e ricette che costituiscono uno dei fiori all'occhiello della nostra storia e della nostra economia.
Con il suo primo libro sul tema, DOI – Denominazione di Origine Inventata, e soprattutto con il conseguente podcast omonimo (realizzato in collaborazione con Daniele Soffiati), il professore ha semplicemente voluto rendere disponibili i risultati delle proprie ricerche che – fatto noto, ma ampiamente celato e disconosciuto – intendono dimostrare l'artificiosità di quest'attaccamento atavico a una “cucina della nonna” che non è mai veramente esistita e che, al più, risale agli anni Settanta del secolo scorso, perlomeno nelle forme che riteniamo oggi sempiterne e immutabili. Apriti cielo! D'altronde, è questo che succede quando a noi italiani ci toccano il cibo, no? Polemiche, attacchi e addirittura minacce hanno travolto il professore, da parte di un Paese che «sta perdendo gran parte della sua identità e si sta aggrappando alla cucina come elemento identitario, una sorta di bandiera, qualcosa di cui essere orgogliosi, rispetto al quale è necessario essere ortodossi in modo grottesco».
E il suo ultimo libro, La cucina italiana non esiste, esprime già dal titolo l'accresciuta intenzione provocatoria.
Non me la bevo: falsi miti e vino
E nemmeno il vino si salva dalla recente ondata demistificatoria di critici ed esperti. Un altro docente, Michele Antonio Fino, giurista all'Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, pubblica Non me la bevo, un contributo volto a sbugiardare alcuni dei luoghi comuni più diffusi sul vino.
In primis vi è la favoletta secondo cui si produce il vino “come si è sempre fatto”, salvo poi rendersi conto che c'è – nella vinificazione e non solo – un prima e un dopo Pasteur. Soltanto nel 1860, poco più di centocinquant'anni fa, si è compreso ciò che accadeva durante quel curioso «ribollir dei tini» e che la bevanda liquorosa così ottenuta era il risultato di precise reazioni microbiologiche. In quel momento, azioni ripetute meccanicamente prive di logica diventano immediatamente comprensibili, rivelando il ruolo di lieviti e microrganismi attivi nella trasformazione dello zucchero in alcool.
Poi, tra le bufale più diffuse e maggiormente difese dall’opinione pubblica (e non solo) si ritrova la credenza secondo cui il vino avrebbe certe proprietà salutistiche. Un popolare adagio recita “vino fa buon sangue” e molti ne sono fermamente convinti. Il fatto è che il vino, come qualsiasi altra bevanda spiritosa, comporta alcuni rischi per la salute, proprio in virtù della presenza di alcool al proprio interno. L'intento qui non è quello di demonizzare il vino, ma semplicemente quello di fare chiarezza sulle fake news che si porta appresso, promuovendo un consumo attento e consapevole.
Infine, uno dei miti preferiti da una certa narrativa è quello dell'indubbia superiorità del “vino contadino”. Non importa se lo si intende, alla Soldati, come il prodotto di un lavoro artigianale oppure, alla Veronelli, nel senso di “genuino”, ovvero privo di qualsivoglia sofisticazione, il prof. Fino invita a non farsi abbagliare da tali superstizioni. A tal proposito, il movimento dei vini naturali ha, da una parte, avuto il merito di spingere molti produttori all'adozione di metodi di lavoro più rispettosi della materia prima ma, dall'altra, ha legittimato anche coloro i quali, privi di competenze tecniche, hanno prodotto «le peggio sciatterie» spacciandole per l'espressione più autentica del terroir (termine oramai fumoso poiché ampiamente abusato e distorto).
Perdita identitaria e gastronazionalismo
Debunking gastronomico
Le reazioni a tali operazioni di debunking gastronomico, l'abbiamo detto, sono state feroci. Coloro i quali si sono sentiti attaccati dalle ricerche del prof. Grandi lo accusano di essere “nemico dell'Italia” dal momento che «non basta dire che la cucina italiana è buona [fatto mai messo in discussione], bisogna dire che è la migliore ed è sempre stata la migliore».
Tale campanilismo estremo, secondo Grandi, dipende da due ragioni principali. Anzitutto, vi è un mercato molto florido che gravita attorno a certi prodotti e, in questo senso, il marketing si serve di racconti più o meno veritieri per vendere di più. Su questo fatto non ci sarebbe nulla da ridire, se non fosse che poi le persone si convincono sul serio della veridicità dello storytelling pubblicitario. Secondariamente, poi, noi italiani pensiamo veramente di avere dalla nostra la migliore cucina al mondo: pilastro della nostra economia da secoli. Niente di più falso! Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, spiega il professore, in Belgio si mangiava molto meglio che in Italia e le tanto decantate “nonne” erano solite cucinare con i prodotti industriali che il Carosello gli consigliava.
Fortunatamente le cose stanno cambiando. Maggiore conoscenza da parte dei consumatori, combinata al lavoro di molti esperti, stanno contribuendo a dissipare i miti alimentari che ci raccontiamo, mostrandoci che la cucina italiana è ottima, ma non è la migliore al mondo né, tantomeno, lo è sempre stata.
Cucina ed evoluzione
Tanto fervore dipende dall'intima correlazione tra identità e alimentazione. Alberto Grandi, però, ci dice che spesso «confondiamo l'identità con le radici. L'identità è ciò che siamo oggi mentre le radici sono ciò che eravamo ieri e sono costituite da incroci, contaminazioni e scambi. È la nostra storia, fatta di persone che sono emigrate in America, Brasile, Belgio e in altri paesi».
Nel secondo dopoguerra, complice la povertà dilagante, i nostri connazionali mangiavano poco e male, sicuramente peggio che in altre parti d'Europa. I più facoltosi, che potevano permettersi un’alimentazione migliore, sceglievano la cucina francese. Allora, ciò che oggi identifichiamo come “cucina italiana”, deve la propria genesi a una serie imprecisata e indefinibile di scambi e incroci con tradizioni da ogni parte del globo, merito degli italiani che, migrando, hanno ricostruito una propria identità altrove, sapendo sfruttare al meglio ciò che quelle terre lontane avevano da offrire.
Un esempio pratico su tutti, uno dei prodotti che – com'era prevedibile – ha scatenato più polemiche di tutti: la pizza. «Finché è rimasta a Napoli la pizza è stata una grandissima schifezza. Ma quando è arrivata a New York si è riempita di prodotti nuovi e, in particolare, della salsa di pomodoro diventando la meraviglia che conosciamo oggi. Senza il viaggio degli italiani in America sono convinto che questa specialità sarebbe scomparsa».
L'identità va piuttosto intesa come un processo dinamico in continuo divenire e volerla cristallizzare in certi ideali artificiosi ne comporterebbe letteralmente la morte. La cucina evolve, così come i gusti delle persone e, ricorda il prof. Grandi, il fatto che l'Italia sia il primo Paese in Europa per consumo di sushi la dice lunga sul fatto che, forse, non siamo davvero così convinti della nostra superiorità in cucina e che siamo in grado di riconoscere l’esistenza di una miriade di tradizioni culinarie altrettanto ricche e tutte da scoprire.